A volte non serve l'oblio per uccidere la memoria: basta la menzogna. Paolo Borsellino è stato assassinato una seconda volta, e poi una terza, e poi ancora. Una lunga catena di silenzi, depistaggi, opacità e ambiguità ha diluito nel tempo il significato autentico della sua eredità, fino a farne un territorio conteso, reinterpretato, perfino negato. Oggi, a più di trent’anni dalla strage di via D’Amelio, la sua figura viene evocata con deferenza, ma il racconto della sua morte continua a essere distorto. Le domande essenziali restano inevase. E intanto si affaccia il rischio più grave: che la verità venga riscritta per assecondare esigenze che nulla hanno a che fare con la giustizia.
Quella contro Paolo Borsellino non fu soltanto un’azione mafiosa. Fu il punto terminale di un isolamento istituzionale, di un accerchiamento professionale, di una marginalizzazione politica e umana. Fu preceduta da omissioni consapevoli, da ostacoli calcolati e da una generale indifferenza. E poi seguita da una manipolazione sistematica dei fatti. A partire dall’inchiesta costruita attorno a un falso pentito, Vincenzo Scarantino, fino alle verità addomesticate che per anni hanno retto l’intero impianto giudiziario. In mezzo, la sottrazione mai chiarita dell’agenda rossa, scomparsa nel cuore stesso delle istituzioni.
Oggi, mentre la procura di Firenze mantiene accesi i riflettori su alcune figure chiave del periodo stragista, altri ambiti dell’antimafia sembrano voler rimettere in discussione ciò che faticosamente è emerso. Due nomi su tutti: Mario Mori e Giuseppe De Donno, ufficiali del Ros, al centro di quella stagione segnata dalla cosiddetta “trattativa” tra Stato e Cosa Nostra. Una vicenda giudiziaria che si è conclusa con un’assoluzione, ma che lascia intatti gli interrogativi storici e politici. Perché al di là della responsabilità penale, resta da capire se l’avvio di un dialogo con Vito Ciancimino, emissario dei Corleonesi, abbia dato alla mafia l’impressione che lo Stato fosse pronto a cedere. E se non sia stata proprio questa percezione a moltiplicare le bombe, anziché fermarle.
In questo quadro si inserisce anche il cosiddetto “dossier mafia e appalti”, consegnato nel 1991 alla procura di Palermo, all’epoca guidata da Pietro Giammanco. Un’informativa delicata, che descriveva l’interesse diretto dei clan nella gestione delle grandi opere pubbliche, con il concorso di settori politici. Quel dossier fu inizialmente ignorato, poi riaperto, parzialmente archiviato, e infine rilanciato. Ora, sull’onda di una ritrovata attenzione, anche la procura di Caltanissetta è tornata a esaminarne la traiettoria. Borsellino lo conosceva. Se ne occupò. Ma ridurre la strage di via D’Amelio solo a quel rapporto significherebbe ancora una volta semplificare, tagliare il contesto, evitare le connessioni più scomode.
Borsellino sapeva molto, ma non fu messo in condizione di parlare. Aveva chiesto di essere ascoltato dai colleghi di Caltanissetta, per riferire cosa avesse compreso dell’attentato a Giovanni Falcone. Nessuno raccolse quell’appello. Disse di sentirsi tradito, ma nessuno ha mai davvero cercato chi fosse quel "traditore". Giammanco, lo stesso procuratore che non agì sul dossier mafia-appalti, gli impedì di indagare sul capoluogo, salvo autorizzarlo solo la mattina della sua morte. E nessuno ha mai spiegato perché in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, non ci fosse nemmeno un divieto di sosta. Nessuna vigilanza. Nessuna prevenzione.
Nel frattempo, mentre la Prima Repubblica si sgretolava sotto i colpi di Tangentopoli, e il sistema politico cercava un nuovo equilibrio, la mafia osservava e si muoveva. Anche questo contesto è parte della verità. Pensare che la strage sia frutto solo di un singolo dossier significa ignorare che Borsellino rappresentava, per la criminalità e forse anche per certi poteri, un ostacolo alla ristrutturazione del Paese. Era un uomo che aveva capito. E stava per parlare.
A trentatré anni di distanza, abbiamo ancora il dovere di restituirgli non solo la verità storica, ma anche quella giuridica.
Non c’è giustizia dove si tacciono i nomi. Non c’è legalità dove si cancellano le responsabilità. Non c’è memoria dove si rimuove il contesto.
E non c’è Stato, se lo Stato tradisce i suoi servitori migliori.
Daniele Schito